V Conferenza Escapes – #escapes2018
RAGION DI STATO, RAGIONI UMANITARIE
Genealogie e prospettive del sistema d’asilo
Milano, Università degli Studi, 28 e 29 Giugno 2018
Tema II – Genere, generazioni, diritti
Coordinamento: Luca Ciabarri (Università degli Studi di Milano) e Barbara Pinelli (Università degli Studi di Milano-Bicocca)
Giovani maschi, palestrati, indolenti: è facile vederli con telefonino in mano e ben vestiti. I profughi fuggiti dalla guerra! È questo uno dei ritornelli più frequenti della propaganda dai toni spesso razzisti usata in questi anni per giustificare logiche di esclusione dei rifugiati e chiusura dei flussi via mare. Usando figure dell’eccesso (troppi arrivi, numeri da invasione), rievocando diversità culturali incommensurabili o profonde differenze morali (prostituzione, predisposizioni culturali all’illecito, contagio, devianza), tale discorso pubblico ha conquistato egemonia e generato una profonda delegittimazione dell’istituto stesso dell’asilo.
Quest’immagine dei giovani migranti non si traduce tuttavia in una reale analisi delle esperienze vissute dai soggetti, e men che meno si interroga su temi rilevanti come la questione giovanile, i processi formativi e i rapporti generazionali che questi movimenti migratori veicolano e sviluppano. Rispetto alle giovani donne poi, la formula razzismo/sessismo si presenta nel discorso pubblico – e di concerto nell’intervento umanitario – oscillando fra la disponibilità a riconoscere la vittima e la negazione delle donne come soggettività storiche e politiche. Una forte invisibilità, infine, avvolge coloro che chiedono asilo per motivi di persecuzione legati a genere, violenza di genere e orientamento sessuale.
Questa sezione tematica si concentra sull’intersezione fra genere, generazioni e diritti come prospettiva capace di interrogare le migrazioni in termini di orizzonti di scelta, biografie della mobilità, senso del futuro, significati individuali o collettivi dati agli itinerari di mobilità dal punto di vista di chi entra nel percorso di asilo o ne rimane escluso. È probabile per esempio che i giovani migranti scrivano una sceneggiatura di auto-formazione e di costruzione della mascolinità distante dallo stereotipo cui sono esposti, o che, seppur con espedienti e poche risorse, organizzino spazi di rivendicazione; che le donne, seppur ridotte a figure di dipendenza, da salvare o emancipare, ingaggino una partita nella sfera pubblica o istituzionale contraddicendo gli immaginari su esse costruiti, o rimettendo in discussione concetti quali dipendenza, vittima, vulnerabilità.
Il tema delle generazioni indica qui pertanto non solo gruppi di persone della medesima classe di età – tema del tutto centrale se pensato in termini di soggetto collettivo e di reti di relazione coinvolte nel processo migratorio – ma
1) come un concetto analitico e una realtà empirica per misurare gli effetti di lunga durata della violenza e della sofferenza inflitta a gruppi generazionali nelle traiettorie di disconoscimento e abbandono istituzionale, nei processi di sfruttamento/scambio lavorativo e sessuale, nei circuiti di relazioni distribuiti tra paesi di origine, transito e approdo;
2) un angolo da cui osservare le migrazioni dal punto di vista di soggettività collettive che si pongono sulla scena politica e sociale rivendicando una posizione nella storia e forme di accesso e integrazione sociale.
Generazioni si collega al genere quale prospettiva che ha costantemente compiuto lo sforzo di collocare gruppi sociali e persone – a più livelli discriminati e resi subalterni – nella storia. In una delle sue accezioni più alte, il genere indaga la costruzione delle gerarchie sociali sulle differenze. Tale prospettiva guarda agli effetti che l’agire combinato di assi discriminanti quali genere, sesso, razza, cultura, classe, età, e altre variabili di appartenenza/differenza hanno sulle vite delle persone che ne sono investite.
Nell’indagare questi spazi di azione, l’attenzione si rivolge al tema dei diritti come spazio, per i rifugiati, di confronto, rivendicazione, consapevolezza e rappresentazione delle proprie vicende burocratiche e delle richieste di riconoscimento. Si intende tematizzare da un lato le possibilità di trasformare le proprie esperienze nella mobilità (la Libia ma non solo) in istanze giuridiche (violenze, privazioni, sfruttamenti) e dall’altro le politiche aperte e implicite di disconoscimento di tali esperienze.
Ulteriore spazio di riflessione riguarda l’intersezione tra diritto e stereotipi: essa risulta utile per lavorare su temi quali:
1) Genere, razza, cultura, età, classe: in che modo tali prospettive si declinano nell’intervento operativo e come forme stereotipate di genere, razza e origine guidano l’intervento umanitario e securitario?
2) Come tali stereotipi costruiscono classi di soggetti essenzializzati (Quali per esempio le donne nigeriane)?
3) Come le istituzioni usano queste combinazioni per stabilire i limiti del diritto e del riconoscimento? Quali spazi di narrazione hanno le persone che chiedono asilo per persecuzioni legate al genere e all’orientamento sessuale? (Per esempio: nel riconoscimento della violenza sulle donne come violenza privata e non come elemento di persecuzione o crimine di guerra; nel disconoscimento della violenza sui giovani richiedenti; e come l’orientamento sessuale o l’omosessualità sono usate per riconoscere o negare diritti?).
Giovedì 28 Giugno 2018
14.00 – 16.15 Aula S. Antonio I, Via S. Antonio 5
Genere e diritti (I): Politiche del corpo, violenza, sfere del riconoscimento
Coordinano: Barbara Pinelli e Giorgia Serughetti
Giorgia Serughetti (Università degli Studi di Milano-Bicocca)
Vittime e soggetti agenti. Riflessioni critiche su genere e vulnerabilità nella migrazione
Nella governance delle migrazioni, l’uso di classificazioni burocratiche capaci di separare coloro che “meritano” protezione da coloro che non ne hanno diritto costituisce un principio organizzativo fondamentale: la costruzione e applicazione di identità distinte, come quelle di migrante irregolare o vittima di tratta, migrante economico o richiedente asilo, è ciò che consente il riconoscimento differenziale di diritti.
Tuttavia, le categorie legali, politiche e accademiche che ripartiscono le persone migranti in sottocategorie si scontrano con la crescente convergenza e sovrapposizione di fenomeni quali tratta di persone (trafficking) e traffico di migranti (smuggling), ma anche delle esperienze di migrazione volontaria e involontaria, per lavoro e per asilo.
In questo contributo si metteranno in evidenza i problemi specifici che nascono dalla difficoltà di scindere i diversi segmenti delle migrazioni secondo le partizioni che sono state costruite dalla normativa internazionale, regionale e nazionale di riferimento, con particolare riferimento al riconoscimento dei bisogni di protezione delle donne richiedenti asilo e vittime di tratta.
In particolare, questi problemi saranno descritti come derivanti dall’influenza di stereotipi di genere e neo-coloniali nella costruzione della vittima, al cui centro si trova una concezione riduttiva della vulnerabilità. Si proporrà quindi un approfondimento filosofico intorno alla nozione di vulnerabilità, che offra una base teorica per il superamento della falsa opposizione tra vittima e soggetto agente, e della partizione che ne discende tra persone “meritevoli” e “non meritevoli” di protezione.
Chiara Quagliariello (Cems/Ehess, Paris)
Violenze e frontiere nel corpo. Esperienze di richiedenti asilo sub-sahariane in Italia e in Francia
Nella gerarchizzazione dei soggetti titolari di diritti le donne, soprattutto se in gravidanza, compaiono spesso per prime. L’applicazione di questo principio nel percorso di asilo non è, tuttavia, automatica.
La classificazione delle donne in gravidanza come soggetti particolarmente vulnerabili è ‘fonte’ – quanto meno in teoria – di maggiori attenzioni e cure durante l’attesa, insieme, del bambino e degli esiti della domanda di asilo. Al contempo, diversamente da quanto sostenuto da molti discorsi comuni, la condizione di gravidanza non incide di per sé sul percorso giuridico delle richiedenti asilo.
Più complessa è la situazione delle richiedenti la cui gravidanza è il risultato di violenze subite durante il viaggio migratorio e la permanenza in Libia.
Altrettanto complicata è la situazione delle donne che portano nelle parti più insieme del proprio corpo i segni di violenze conosciute nel proprio paese di origine, quali le tracce delle mutilazioni genitali femminili.
Nel primo caso la possibile inclusione nel percorso di asilo dipende dalla concreta dimostrazione del legame tra la condizione di gravidanza e quanto vissuto prima dell’arrivo in Europa; nel secondo caso l’accesso al diritto di asilo è legato alla riproducibilità (o meno) delle violenze vissute dalle madri sulle future generazioni di donne, quali gli eventuali soggetti femminili che nasceranno dalla gravidanza.
La nozione di ‘incorporazione delle esperienze’ proposta da Thomas Csordas (1990) appare particolarmente utile per riflettere sui vissuti e i diritti delle donne di origine sub-sahariana (principalmente originarie della Costa d’Avorio e la Guinea Conakry) che, dopo aver attraversato il Mediterraneo, fanno richiesta di asilo in Italia e/o in Francia.
A partire dai risultati di un percorso di ricerca realizzato nell’isola di Lampedusa, nella città di Palermo, in Sicilia, e nel comune di Montreuil, nella regione Ile-de-France, si rifletterà sull’ ‘inscrizione’ nel corpo delle esperienze vissute durante la migrazione, in Libia e nei paesi di origine, e i fattori di inclusione ed esclusione nel percorso di asilo.
Rosa Paolella e Francesca de Masi (Cooperativa BeFree – Roma)
Di imbrigliamenti e resistenze. Donne nigeriane sopravissute a tratta e protezione internazionale
A un anno dalla pubblicazione delle Linee Guida antitratta UNHCR per le Commissioni territoriali, questo contributo intende stimolare un confronto sul reale accesso alla protezione internazionale da parte delle vittime di tratta alla luce dell’esperienza sul campo portata avanti da Be free cooperativa.
Tali Linee guida, infatti, se da un lato sanciscono la necessità anche per le Commissioni di approcciare il fenomeno della tratta di esseri umani, a fronte di una passato disinteresse, dall’altro non sembrano riuscire, nella loro applicazione, a dare conto delle complessità e delle sfaccettature che caratterizzano le storie delle donne sopravvissute a tratta; storie mai tutte uguali e standardizzabili, ma connotate da multiformi strategie di resistenza, messe in atto per liberarsi da violenza e sfruttamento.
Esiste una differenza sostanziale tra una richiedente asilo così come viene categorizzata all’interno del sistema della protezione internazionale e una donna sopravvissuta a tratta: la prima in Italia, almeno in teoria, dovrebbe essere “in salvo” rispetto ai pericoli da cui è fuggita; al contrario, una donna sopravvissuta a tratta il pericolo lo vive o lo ha vissuto anche nel Paese di destinazione dove si concretizza lo sfruttamento, scopo primario dell’intera catena che parte dal Paese di origine per poi dipanarsi nei Paesi di transito e di arrivo.
Sebbene tale peculiarità debba essere seriamente presa in considerazione ai fini della presa in carico, se l’ evidenza dello stato di pericolo non viene affiancata da un approccio metodologico basato sull’ottica di genere e sulla costruzione di strategie di empowerment può avere delle conseguenze nefaste non solo nei percorsi individuali delle singole donne, ma soprattutto in una visione che non abbiamo timore a definire “coloniale” delle donne sopravvissute a tratta, schiacciate tra vittimizzazione, per quanto riguarda il loro passato, e volontà di controllo pervasivo sulle loro vite nel presente, perché ritenute “incapaci” di gestirle in modo consapevole, perché non in grado di salvarsi da sole, e , in alcuni casi, perché “bisognose” di essere salvate persino da loro stesse.
Alcuni comportamenti messi in atto dalle Commissioni territoriali appaiono andare in questa direzione: vorremmo stimolare una discussione in tal senso, e capire insieme quali possano essere delle strategie di intervento efficaci per contrastare tali narrazioni.
Annagrazia Faraca (Ricercatrice indipendente CIDIS Onlus)
This is not my fatherland. L’escissione/mutilazione dei genitali femminili in contesto migratorio: racconti di vita di esuli nigeriane
Questo contributo intende esporre i risultati della ricerca qualitativa condotta su quindici donne richiedenti asilo provenienti dalla Nigeria meridionale e residenti nella città di Perugia che hanno subito la pratica di Escissione/Mutilazione dei Genitali Femminili (nell’acronimo E/MGF) in Nigeria. L’indagine esplora il percorso migratorio e di vita di queste donne, quindi le modalità di vivere e gestire l’identità migratoria, al fine di tracciarne le biografie e di comprendere come il processo migratorio incide sul sistema di opinioni e di atteggiamenti rispetto all’E/MGF utilizzati dalle donne intervistate.
Le pratiche di E/MGF sono una forma di persecuzione e di violenza basata sul genere che infligge un grave e duraturo danno, fisico e mentale, alle donne che vi sono sottoposte, inoltre violano molti diritti umani universalmente riconosciuti.
Per sette donne le richieste di protezione internazionale, secondo le diverse misure esistenti, sono state accolte positivamente dalle autorità competenti sulla base del fondato timore di persecuzione in caso di rimpatrio in conseguenza “dell’appartenenza ad un particolare gruppo sociale individuato dalla caratteristica immutabile dell’essere donna”, con particolare riferimento alla tratta e sfruttamento per fini sessuali e al riconoscimento dell’E/MGF come atto di persecuzione.
La realtà attuale, caratterizzata dall’aumento dei flussi migratori dal continente africano e dalla crescente femminilizzazione degli stessi, impone infatti di prendere atto del fenomeno dell’E/MGF ormai presente in terra d’immigrazione e di nuova residenza. Infatti, non si può più considerarla una tradizione da analizzare unicamente nel contesto culturale e sociale di provenienza, quanto piuttosto come una pratica trasferita al di fuori di questo insieme alle credenze e agli atteggiamenti ad essa connessi, e per questo diventa pressante effettuare un’analisi in una prospettiva interculturale e transnazionale.
La complessità del fenomeno oggetto d’indagine, nonché la necessaria sensibilità nell’approcciarsi allo stesso, hanno orientato la ricercatrice a lasciar spazio e tempo alle parole delle donne in quanto soggetti attivi e centrali, protagoniste della diaspora africana e della pratica escissoria, al fine di sviluppare una visione dal di dentro delle persone incontrate come presupposto della comprensione, cercando di dare loro voce e di restituire loro un volto, in contrapposizione alla consueta visione di queste donne come mero “oggetto” d’indagine e per questo lasciate afone.
Alessandra Brivio (Università degli Studi di Milano-Bicocca)
Prostituzione/protezione. La migrazione delle donne nigeriane dal punto di vista degli studi di africanistica e antropologia delle religioni
In questo intervento cercherò di tracciare un quadro storico e antropologico della pratica della prostituzione in Nigeria e di connetterla con i percorsi d’individualizzazione tipici dell’Africa contemporanea. Si tratta di tragitti esistenziali nei quali il soggetto non riesce a liberarsi completamente dai vincoli comunitari ma li deve rinegoziare costantemente, senza metterne in dubbio i più profondi fondamenti. Centrale alla comprensione di alcuni aspetti che caratterizzano le forme di dipendenza che vivono oggi le migranti dalla Nigeria è quindi la nozione di debito e la sua dimensione mistica e religiosa.
16.45 – 19.00 Aula S. Antonio I, Via S. Antonio 5
Generazioni: culture della mobilità e spazio pubblico
Coordinano: Eduard Conte e Luca Ciabarri
Francesca Declich (Università degli Studi di Urbino, Carlo Bo)
Coming of Age in Exile – Film documentario, 30’, 2011
Coming of age has been shot in areas where the Somali Bantu refugees have been offered resettlement in Tanzania and the United States. The documentary texture follows narratives recounted by Somali Bantu refugees interviewed in the village of Chogo and the town of San Diego which highlights both constrains and opportunities embedded in the contexts and countries where the refugees have been offered asylum following brief or extended stays in refugee camps. Expectations of younger and older people are different and rarely coincide with the chances available in the countries of asylum; disillusion may provoke anxieties. Racism from Black Americans is an issue that refugees in the United States did not envisage whereas unemployment after university education was unimaginable for those who settled in Tanzania. Many young people are firmly motivated to strengthen their education in order to help their families both in the US and in Africa but, often, do not find access even to secondary education.
The experiences in refugee camps shed new light on lives in exile as they play an important role in decisions concerning migratory projects. Patterns of migration count on the opportunities offered in refugee camps which, however, may become destinations where utopian migratory objective are nurtured and hopes dashed. The rapid loss in exile of the group’s language as well as of some core cultural traditions is perceived as an urging problem.
Alice Bellagamba (Università degli Studi di Milano-Bicocca)
Generazioni e sviluppo locale nell’entroterra della migrazione senegalese
Dal vertice della Valletta del 2015, il problema delle migrazione è entrato nell’agenda di cooperazione Europa/Africa con interventi in Niger, rispetto alle migrazioni di transito, e in Senegal e altri paesi della fascia saheliana dell’Africa Occidentale con riferimento alle fasce giovanili della popolazioni, potenziali candidati alla migrazioni.
Questa prospettiva presenta dei limiti quanto delle potenzialità. La più interessante è porre gli uomini giovani fra i beneficiari di progetti di sviluppo dopo almeno due decenni di iniziative orientate pressoché esclusivamente alle donne. La considerazione degli entroterra migranti deve comunque tenere conto della loro storicità e della stratificazione nel tempo di molteplici esperienze di mobilità geografica e sociale. Per alcune regioni del Senegal, un paese ormai contiguo all’Italia da molti punti di vista, siamo alla quarta generazione di migranti internazionali. Quale è stato il loro impatto economico e sociale sulle comunità d’origine? Le ragioni che spinsero i pionieri sulla strada interazionale sono le stesse che oggi alimentano le migrazioni irregolari verso l’Europa?
Con riferimento ai risultati di un’inchiesta quali-quantitativa condotta nel Senegal sud-orientale nell’ambito dell’iniziativa regionale d’urgenza 2016 della cooperazione italiana, cercheremo di considerare da vicino il nesso fra migrazione e sviluppo, e di introdurre un concetto fondamentale nella considerazione dei paesi d’origine: il rango nella migrazione.
Aurora Massa (Università degli Studi di Trento)
La stanza mancante. La riconfigurazione del genere e della generazione nelle pratiche di fare casa dei rifugiati eritrei a Roma
L’insicurezza lavorativa, l’assenza di forme di supporto abitativo, i prezzi degli affitti e l’atteggiamento discriminatorio di molti proprietari di casa verso i migranti di origine africana riducono, per i rifugiati eritrei a Roma, le possibilità di scegliere la propria abitazione e li costringono a optare per palazzi occupati, appartamenti condivisi e alloggi di fortuna. A causa della loro forma e dimensione, della mancanza di privacy e sicurezza, queste soluzioni abitative possono impedire ai migranti di mettere su famiglia, ricongiungersi con il coniuge e i figli e di ospitare parenti vicini e lontani.
Il mio contributo analizza come certe condizioni abitative possano impedire ai migranti di performare i ruoli sociali (sposarsi, avere dei figli, ospitare parenti) cui – in base alla loro età, genere e condizione migratoria – dovrebbero aderire. Attraverso alcuni casi etnografici che mostrano l’interazione tra macrodinamiche e micropratiche, analizzo le conseguenze sulla posizione dei migranti nelle loro reti sociali e famigliari, le tensioni nelle relazioni parentali e le riconfigurazioni della loro soggettività.
Nicoletta del Franco (Università degli Studi di Parma)
Transizione all’età adulta e migrazione: giovani migranti in Bangladesh, Etiopia e Sudan
La mia presentazione si basa sui risultati di un progetto di ricerca sulla migrazione interna e internazionale di ragazze adolescenti dal titolo ‘Time to look at girls: adolescent girls’migration and development’ finanziata principalmente da SNIS (Swiss Network for International Studies) e condotta dal gennaio 2014 al giugno 2016 in Bangladesh, Etiopia e Sudan rispettivamente dalla Dott. Nicoletta Del Franco, Dott. Marina de Regt e Dott. Katarzyna Grabska.
Attraverso le storie di giovani migranti la ricerca discute alcuni aspetti del loro percorso migratorio e come questo si intreccia con le scelte fondamentali del loro percorso di vita in una fase, quella dell’adolescenza, caratterizzata da passaggi cruciali. Dalla ricerca emerge fra l’altro che in tutte le realtà esaminate, la struttura delle relazioni intergenerazionali e l’ordine di genere influenzano profondamente il processo migratorio delle ragazze, dal momento della presa di decisione alle esperienze a destinazione alle conseguenze della migrazione per le ragazze e le loro famiglie.
L’interdipendenza fra generazioni che caratterizza i contesti sociali del sud del mondo mette in crisi un’idea di transizione lineare verso la maturità esclusivamente legata a un processo di individuazione e all’affermazione di diritti individuali. In linea con quanto evidenziato da altri studi (Huijsmans :2011, 2017), per le giovani migranti, nel ‘majority world’ (Punch, 2015, 2016) la capacità di agire e di decidere passa attraverso il riconoscimento dell’interdipendenza all’interno dei gruppi sociali piuttosto che dalla ricerca dell’indipendenza. Così, quello che Kabeer (2009) definisce ‘contratto intergenerazionale’ diventa la chiave per comprendere gli obblighi e le aspettative reciproche che legano generazioni diverse e che informano le scelte individuali e collettive.
Una analisi intersezionale che consideri le dimensioni di genere e generazione mostra che la l’esperienza migratoria cambia in relazione al momento del ciclo di vita in cui viene vissuta e che la migrazione è parte di un ampio repertorio di transizioni all’età adulta che può aprire percorsi di vita alternativi e un diverso modo di diventare adulte per le ragazze adolescenti in Bangladesh, Etiopia, Eritrea e altrove. Nelle tre realtà considerate il processo migratorio e il viaggio che comporta si interseca con altri percorsi e con altre scelte, legate all’istruzione, al lavoro, al matrimonio che si traducono in modi alternativi di diventare ‘donna’.
Carlotta Zanzottera (Utrecht University)
Trust between Unaccompanied Minors from Eritrea and their caregivers in The Netherlands
The overarching research question in this research is: within the care system in the Netherlands, what are the factors that constrain and support the capacity of Unaccompanied Minors of Eritrea and their caregivers to trust each other?
Trust is not embedded in a person naturally or automatically. Trust grows and develops in every individual and is shaped by external factors such as the environment wherein one interacts with other people and within the different circumstances one is living (Eisenhower & Blacher, 2006). When young children are exposed to violence, oppression, or other human rights violations, distrust against others can evolve.
The data were collected through participant observations in the refugee centres in the Netherlands and in depth semi-structured interviews with the minors. The total amount of the minors who participated is 25 (12 female and 13 male). Furthermore, 11 guardians and 7 mentors were interviewed.
From the data collected, it can be stated that trust building with Unaccompanied Minors of Eritrea is a highly challenging and time-consuming process. This is because the minors have to navigate an unfamiliar and complex environment. The challenges recognized by Unaccompanied Minors of Eritrea and the caregivers include a lack of understanding of prior experiences of the minors by the caregivers and an underestimation of the impact these experiences have on their capacity for building trust. Besides these past experiences there is a disjunction between the cultural backgrounds, social norms and expectations of the Unaccompanied Minors of Eritrea and the caregivers. Communication and language complicate trust relationships. The bureaucratic procedures associated with the care-system are experienced by the minors as alienating and overly scrutinising. The opportunities the Unaccompanied Minors of Eritrea and the caregivers highlighted for improving trust relations are overlapping in regards to communication issues and the need for cultural awareness. The minors and the caregivers underscored that mutual understanding can be improved when both parties are good culturally informed and when language barriers are minimized.
The findings in this report suggested that latter points may be an effect of individual and collective trauma which derived from an accumulation of traumatic experiences back in Eritrea and along their journeys to Europe.
Venerdì 29 Giugno 2018
14 – 17.30 Aula S. Antonio I, Via S. Antonio 5
Genere e diritti (II): Regimi di credibilità e legittimazione delle storie
Coordinano: Luca Ciabarri e Barbara Pinelli
Ilaria Boiano (Associazione Differenza Donna, Università di Roma Tre)
La valutazione della credibilità delle richiedenti asilo: appunti per un approccio femminista a partire dall’evoluzione giurisprudenziale penale sui di maltrattamenti e violenza sessuale
Con il presente contributo, utilizzando il genere come categoria analitica, si propone una ricognizione dei criteri di valutazione della credibilità impiegati dai funzionari e dall’autorità giudiziaria nell’esame delle domande delle donne richiedenti asilo che lamentano persecuzioni per motivi di genere, compresa la violenza domestica e la violenza sessuale.
Tali criteri saranno estrapolati dalle decisioni delle commissioni territoriali per la protezione internazionale e dei tribunali investiti dell’impugnazione dei dinieghi.
In particolare, attraverso l’analisi delle motivazioni dei provvedimenti si indagherà in che misura la rilevanza giuridica dei fatti narrati dalle donne sia diminuita, fino ad essere negata, ai fini del riconoscimento della protezione internazionale a causa dell’operatività nell’iter logico giuridico di stereotipi sessisti che condizionano la valutazione di credibilità/non credibilità delle richiedenti asilo.
Si sonderà, infine, la possibilità di delineare insieme alle donne richiedenti asilo una pratica trasformativa delle relazioni di governo sottese alle procedure di valutazione delle domande di protezione internazionale a partire dall’evoluzione giurisprudenziale prodotta nell’ordinamento italiano dalla pratica femminista del processo penale in materia maltrattamenti e violenza sessuale nei confronti delle donne.
Elena Valentini (Università degli Studi di Bologna)
Il respingimento differito finalmente al cospetto della Corte Costituzionale: una pronuncia di inammissibilità dagli effetti (potenzialmente) dirompenti
Dietro l’apparenza di una stringata declaratoria di inammissibilità per difetto di rilevanza della questione sollevata nel giudizio a quo, la pronuncia costituzionale n. 275 del 2017 – non a caso declinata nella veste della sentenza – squarcia il velo su un istituto, il respingimento differito disciplinato dall’art. 10, comma 2, T.U.I., da sempre oggetto di fondate censure di ordine costituzionale.
La pronuncia racchiude infatti un importante monito al legislatore, sostanzialmente imponendogli la rivisitazione della disciplina racchiusa nell’art. 10, comma 2, T.U.I., in ossequio a quanto prescritto dall’art. 13, comma 3, della Carta fondamentale.
Stando alla disposizione del Testo unico, come noto, il respingimento con accompagnamento alla frontiera può essere disposto dal questore nei confronti degli stranieri:
a) che entrando nel territorio dello Stato sottraendosi ai controlli di frontiera, sono fermati all’ingresso o subito dopo;
b) che, nelle medesime circostanze, sono stati temporaneamente ammessi nel territorio per esigenze di pubblico soccorso.
Nonostante l’accompagnamento alla frontiera mediante la forza pubblica identifichi senz’ombra di dubbio una forma di coercizione (così come riconosciuto, fra l’altro, dalla pronuncia costituzionale n. 105 del 2001, come pure dalla sentenza della Corte europea dei diritti dell’Uomo nel caso Khlaifia c. Italia), la disciplina dell’accompagnamento coattivo funzionale all’esecuzione del respingimento differito, a differenza di quanto avviene rispetto all’accompagnamento coattivo consequenziale a un provvedimento di espulsione, non contempla alcuna forma di controllo da parte del giudice.
La pronuncia costituzionale del novembre 2017, sebbene apparentemente poco significativa (appunto perché dichiarativa del difetto di rilevanza della questione nell’ambito del giudizio a quo), apre però uno scenario foriero di conseguenze molto importanti, anche sul piano applicativo.
Ciò per due diversi ordini di ragioni.
Da un lato, la sentenza offre un’interpretazione costituzionalmente orientata della disciplina sottoposta ad esame, affermando che, qualora il respingimento differito sia seguito dall’ordine di allontanamento impartito al migrante, questa modalità operativa non potrà essere successivamente “sostituita” dall’accompagnamento coattivo (magari da eseguirsi non appena risulti materialmente possibile dare esecuzione al respingimento). Infatti, secondo la pronuncia, affinché possa dirsi rispettata la disciplina costituzionale, il respingimento differito dovrebbe essere eseguito nella prassi soltanto con ordine di allontanamento, e non con accompagnamento mediante la forza pubblica. Né quest’ultimo potrà seguire all’ordine di allontanamento emesso in prima battuta.
Dall’altro lato – e si tratta della conseguenza implicita, ma inevitabile e molto chiara, della decisione costituzionale – il respingimento differito seguito dall’accompagnamento coattivo non potrà più operare in concreto (così come invece spesso avviene nella prassi, in particolare in presenza di accordi di riammissione con il Paese di provenienza del migrante che ne rendano possibile l’immediato rimpatrio). Quantomeno, ciò non potrà più avvenire prima di un futuro e incerto intervento legislativo che rimedi ai profili di contrasto dell’art. 10 comma 2 T.U.I. con l’art. 13, comma 3, Cost.: disposizione che, come noto, confina l’esercizio della coercizione da parte dell’autorità di pubblica sicurezza a casi eccezionali di necessità e urgenza, subordinandolo alla necessaria convalida da parte del giudice.
L’intervento esaminerà (in termini fruibili e non eccessivamente tecnici) le possibili conseguenze della pronuncia costituzionale n. 275/2017, che, in assenza (e in attesa) di una soluzione per via legale, non possono che esaurirsi in questa alternativa: l’adattamento della prassi di polizia al monito della Corte costituzionale; l’altrimenti necessaria futura promozione di un nuovo giudizio di legittimità costituzionale, specificamente tarato sul respingimento differito con accompagnamento immediato alla frontiera.
Davide Biffi (Università degli Studi di Milano-Bicocca)
La co-costruzione di storie e il processo di soggettivazione nei servizi di supporto a richiedenti asilo e rifugiati
Questo intervento si fonda sull’osservazione e sulla partecipazione a due contesti lavorativi e di ricerca. Il primo è un progetto di preparazione all’audizione in Commissione Territoriale per i richiedenti asilo, il secondo un centro diurno per richiedenti asilo e rifugiati, dove la preparazione all’audizione in Commissione e all’audizione in Tribunale (a seguito di ricorso) unita al processo di produzione di certificazioni socio-psico-sanitarie assume un ruolo centrale.
Obiettivo del primo servizio è “spiegare” ai richiedenti asilo il sistema in cui sono inseriti e lavorare sui motivi della migrazione (il processo nominato “raccolta storia”). Quale è il senso di un lavoro sulla storia individuale del richiedente asilo? Preparare il richiedente alla performance in Commissione o promuovere un processo di rielaborazione del proprio vissuto e della situazione in cui si trova a vivere? Gli obiettivi sono gli stessi per il richiedente asilo (o ricorrente) e gli operatori?
Per sostenere le storie e la veridicità dei racconti dei richiedenti asilo, la “corsa alle prove” è parte importante del percorso. Due sono i tipi di prove che si cercano: quelle documentarie (che confermano la cosiddetta credibilità esterna) e i certificati socio-psico-sanitari (credibilità interna-coerenza).
Nel secondo campo di analisi e ricerca in cui ho condotto le mie ricerche, uno dei servizi offerti è la produzione di certificazioni psico-sanitarie. Quali le ricadute di tali prassi sui richiedenti?
In questo processo, le soggettività dei richiedenti sono spogliate delle loro storie, e i loro vissuti affidati a tecnici preposti alla co-costruzione delle narrazioni in Commissione o in Tribunale. Obiettivo dei tecnici è certificare e sostenere la veridicità di quanto dichiarato dal migrante.
La ricerca di prove e la produzione di certificati rischiano di far scomparire la voce di chi ha direttamente vissuto le esperienze narrate. Identificato e reificato dalla e nella categoria a cui viene ricondotto dagli esperti (torturato, abusato, trattato, bugiardo, ritardato o incapace di comprendere o spiegarsi, senza speranza), colui che chiede asilo è assoggettato (e destoricizzato) a categorie universalmente accessibili, spogliato così delle sue molteplici esperienze, identità e posizioni. La sua biografia è ridotta e sintetizzata.
L’intervento degli operatori che lavorano in tali servizi è mosso dalla necessità di rispondere e preparare i soggetti a sostenere il confronto con le Commissioni o i Tribunali. Obiettivo finale è ottenere il riconoscimento di una forma di protezione internazionale.
La produzione di certificati e prove risponde realmente alle attese? La collusione con i meccanismi della Commissione e dei Tribunali è reale e sembra inevitabile. In questo intervento, cercherò di affrontare i nodi teorici critici più rilevanti del processo di raccolta storie e di produzione di prove e certificati.
Romina Amicolo (Avvocata, Foro di Napoli)
L’intersezionalità quale antidoto alla scissione tra legalità e giustizia. La violenza domestica delle richiedenti asilo e la gender-sensitive interpretation
Lo strumentario filosofico-giuridico della prevalenza della positività legalistica dello “stato nazionale” sulla giustizia naturalistica del “diritto umanitario”, è la base teorica della violazione dei diritti umani dei richiedenti protezione internazionale.
Come evitare questa contrapposizione tra “ragion di stato” e “ragioni umanitarie” e la dicotomia tra “vicende private” e “questioni pubbliche”, fondate sulla scissione tra legalità e giustizia?
Alla ricerca di una risposta, si offre uno spaccato dell’evoluzione giurisprudenziale in tema di protezione internazionale delle donne vittime di violenza domestica.
La Corte di Cassazione, in applicazione dell’art. 62 della Convezione di Istanbul, ha adottato un’interpretazione sensibile al genere (gender-sensitive interpretation), che da una parte tiene conto della particolarità dei casi concreti e dall’altro li esamina in una prospettiva di “genere”, che tenga conto di come il “genere” possa influire sui motivi della persecuzione ovvero sul rischio di un danno grave. Al fine di analizzare l’approccio interpretativo “sensibile al genere” della Corte di Cassazione, si esaminano tre sentenze: Corte di Cassazione, Sezione 6 civile Ordinanza 18 novembre 2013, n. 25873; Corte di Cassazione, Sezione 6 civile Ordinanza 17 maggio 2017, n. 12333; Corte di Cassazione, Sezione 1 civile Sentenza 24 novembre 2017, n. 28152.
Le implicazioni politiche dell’evoluzione giurisprudenziale sono la trasformazione della violenza domestica da “vicenda privata” a “questione pubblica”, con una attenzione alla effettività della tutela, non solo in termini di adeguatezza degli strumenti di tutela, ma anche di superamento di “stereotipi” nell’applicazione del diritto, quali le contrapposizioni tra “ragion di stato” e “ragioni umanitarie”, da una parte, e “vicende private” e “questioni pubbliche”, dall’altra.
L’approccio “age, gender and diversity mainstreaming“, utilizzato dalla Corte di Cassazione nelle esaminate sentenze, funge da antidoto contro l’ideologia della “ragion di stato”. Tiene in considerazione discriminazioni multiple, legate alla sovrapposizione tra, età e orientamento sessuale, e, in questo modo, consente di prendere sul serio la “intersezionalità” tra stereotipi di genere, condizioni sociali, culturali, etniche, religiose e di razza, attorno alle quali si producono le disuguaglianze delle donne e degli altri soggetti vulnerabili.
Silvia Vesco (CIAC onlus, Parma)
Genere e percorsi di accoglienza: esperienze empiriche e immaginazione di nuovi percorsi
Questo lavoro ripercorre le ultime evoluzioni del sistema di accoglienza italiano alla luce delle trasformazioni nella popolazione migratoria e dell’aumento delle donne richiedenti asilo in arrivo via mare e presenti sul territorio nazionale.
Conseguentemente, è aumentata la richiesta di posti dedicati ad esse, tanto che strutture che nel tempo avevano maturato esperienza nell’accoglienza di donne in difficoltà – per esempio in percorsi in collaborazione con il servizio sociale – hanno aperto all’accoglienza di donne richiedenti asilo. Allo stesso tempo, anche associazioni che da sempre operano nell’accoglienza maschile hanno deciso di avviare percorsi dedicati alle donne.
Questo scenario apre ad interrogativi e a riflessioni su modalità e tipologie di accoglienza. Quali sono le caratteristiche imprescindibili per chi opera nell’accoglienza di donne rifugiate? Quali gli strumenti e gli attori al centro di questo tipo di percorso che dovrebbe definirsi gender-sensitive?
In Italia, la storia dei centri di accoglienza e tutela delle donne vantano spesso importanti tradizioni, per lo sviluppo di strumenti e metodologie utili a trattare situazioni di vulnerabilità e fragilità. Quanto questi modelli possono essere realizzati nei percorsi di accoglienza di donne richiedenti asilo? Quanto sono capaci di rispondere ai bisogni e ai vissuti delle donne rifugiate?
Allo stesso tempo, chi si affaccia all’accoglienza di donne come può dare spazio e rilievo alla dimensione di genere?
Negli ultimi anni, il dibattito sull’accoglienza femminile in CAS e SPRAR si è concentrato sul tema della tratta delle donne a fine di sfruttamento sessuale. L’ampiezza e l’urgenza del fenomeno non ha lasciato molto spazio ad altri tipi di riflessioni, tanto che le sperimentazioni nate a livello nazionale hanno cercato di strutturare interventi per l’emersione e la protezione delle vittime o potenziali vittime di tratta, secondo una logica di protezione e controllo. Ancora si fatica ad allargare il focus del confronto sul ruolo dell’appartenenza di genere nei percorsi di accoglienza.
Se il modello SPRAR parla di un accoglienza finalizzata all’empowerment e ai processi di integrazione socio / economica, quali sono gli strumenti che permettono alle donne di raggiungere tali obbiettivi?
Percorsi gender-sensitive nell’accoglienza dovrebbero in realtà interrogare anche i percorsi cui sono destinati gli uomini. Se nei progetti delle donne rientrano anche sfere dell’intimità della vita di una persona, trattando argomenti quali la salute donna, la contraccezione e l’affettività generalmente ciò non avviene in maniera sistematica all’interno dei percorsi per gli uomini. L’intimità appare come un tema che appartiene alle donne e da trattare tra donne.
La necessità di pensare a percorsi gender sensitive assume poi ancor più rilevanza se si parla di persone LGBTQI, tema che solo in questi ultimi tempi ha iniziato ad interrogare i modelli di accoglienza.
Partendo dalle esperienze delle donne, questo contributo intende riflettere in senso più ampio sulla valorizzazione del gender per identificare le sfide e le criticità che ci troveremo ad affrontare nei prossimi anni: immaginare percorsi di accoglienza gender sensitive è forse una pista importante per immaginare scenari di accoglienza di cui tutti possono beneficiare.
Chiara Federica Pedace e Martina Millefiorini (Università degli Studi di Roma Tre)
Categorie giuridiche ed esperienza della mobilità delle donne nigeriane
Le riflessioni di seguito articolate nascono nell’alveo della Clinica del Diritto dell’Immigrazione e della Cittadinanza dell’Università Roma Tre. In particolare l’analisi proposta scaturisce dall’incontro sempre più frequente della Clinica con donne migranti nigeriane. Nello specifico si è scelto di analizzare i provvedimenti emanati dalla Commissione Territoriale di Roma con riferimento alle domande di protezione internazionale. Nel merito di tali decisioni pesa la regolamentazione della tutela fornita dal circuito dell’anti-tratta la quale coagula, ben rappresentandolo, tutto il portato delle istanze morali sottese alle contemporanee politiche di (anti)immigrazione.
In questo contributo proviamo a dare conto di tale tendenza attraverso casi studio analizzati seguendo tre traiettorie analitiche: la concezione giuridica della credibilità che emerge dai provvedimenti delle Commissioni territoriali; le forme del consenso pretese ai fini del riconoscimento del permesso di soggiorno, simbolicamente e materialmente propedeutico alla piena appartenenza al patto di cittadinanza; la costruzione dell’agency sottesa ad una simile idea di consenso.
Credibilità. Le linee guida dell’UNHCR del 2017 relative all’identificazione delle vittime di tratta sembrano subordinare il riconoscimento della protezione a una procedura di “certificazione della credibilità” a carico degli Enti Anti-Tratta. Tale procedura di referral si caratterizza per l’ambiguità del suo funzionamento formalmente orientato ad assicurare il diritto alla protezione dei soggetti vulnerabili, ma che appare contemporaneamente teso all’identificazione ed esclusione delle biografie “irregolarizzabili”.
Cittadinanza. I dettagli biografici richiesti e le prove psicologiche che le migranti devono affrontare mirano all’adesione a una certa categoria di mobilità: esse palesano il consenso alla socializzazione in quello che è riconosciuto il modo d’essere della cittadinanza femminile.
Consenso liberale/agency. Per i paesi di arrivo considerare la volontà delle donne migranti di prendersi carico dei loro spostamenti significherebbe confrontarsi con le condizioni strutturali che determinano queste biografie. Nel corso dell’analisi, proviamo a dimostrare come al contrario l’agency delle migranti (la loro volontà considerata dialetticamente ai limiti dati dalle strutture sociali) sia negata da una particolare concezione giuridica della categoria di “consenso”.