Proponenti: Paolo Cuttitta, VU University Amsterdam, Laboratorio Escapes; Glenda Garelli, University of Illinois-Chicago; Alessandra Sciurba, Università di Palermo; Martina Tazzioli, Queen Mary University, London
La “ragione umanitaria” gioca un ruolo sempre più importante nel governo delle migrazioni internazionali. La recente operazione militare-umanitaria Mare Nostrum – caratterizzata dalla perfetta sovrapposizione tra operazioni di polizia e operazioni di soccorso – è stata solo la manifestazione più spettacolare della tendenza affermatasi dall’inizio del secolo, in Europa come altrove, a giustificare operazioni di polizia facendo ricorso ad argomenti umanitari (come l’esigenza di salvare vite umane) e in contesti sempre più emergenzializzati e militarizzati.
Anche la recente proposta fatta all’Unione europea dall’Italia – istituire centri per l’asilo in Nordafrica e coinvolgere i paesi nordafricani nelle attività di ricerca e soccorso in mare – sembra voler nascondere dietro il velo umanitario (impedire tragedie in mare offrendo asilo prima dell’imbarco) l’obiettivo di imbrigliare più efficacemente un’ampia porzione della popolazione migrante, eludendo gli obblighi di diritto internazionale dei paesi europei. Nella stessa direzione – e ben più di quanto previsto dalle precedenti piattaforme di cooperazione euro-africana – va anche il Processo di Khartoum avviato lo scorso autunno.
Lo stesso fine di giustificare e ridefinire, rafforzandolo, il regime di gestione della mobilità umana internazionale viene perseguito evocando non solo il discorso umanitario in senso stretto ma anche quello, analiticamente distinguibile, dei diritti umani.
L’umanitario, tuttavia, non serve solo a rafforzare processi di esclusione ma anche a determinare percorsi d’inclusione d’impronta post-coloniale, fondati sull’asimmetria tra salvatori e salvati, tra i generosi soggetti includenti e quelli inclusi. Questi ultimi, infatti, sono declassati dalla condizione di portatori di diritti a quella di destinatari di compassione, come testimoniano sia le ricerche di Fassin e Ticktin sulla Francia, sia la crescente attenzione dedicata ai programmi di reinsediamento (che, tra l’altro,operano una selezione secondo criteri umanitari su un campione di popolazione – i rifugiati – già originariamente selezionato su basi umanitarie).
La diffusione della retorica umanitaria presso varie agenzie non statali, così come il crescente coinvolgimento di organizzazioni umanitarie nella gestione delle migrazioni, pone ulteriori interrogativi sul ruolo della “ragione umanitaria” nella delocalizzazione e denazionalizzazione del regime di frontiera. Un’importante questione, in effetti, è quella di chi sia in ultima analisi legittimato a definire l’agenda umanitaria, e secondo quali concezioni dell’umanitario.
L’umanitarizzazione, infine, contribuisce – anche grazie all’intreccio con la militarizzazione – all’emergenzializzazione delle politiche migratorie, che a sua volta favorisce la (apparente) depoliticizzazione delle stesse, nella misura in cui la forza morale degli imperativi chiamati in causa finisce per oscurare il carattere politico delle scelte operate (presentate come neutre e “tecniche”).
In questo contesto, ricerca accademica e attivismo politico possono contribuire a mettere in discussione(o a perpetuare, riproducendoli) le dinamiche di rafforzamento del regime di frontiera e il ruolo svolto in esse dalla “ragione umanitaria”.
Questa sessione intende analizzare questi e altri aspetti del confine umanitario.
Possibili temi (elenco non esaustivo ma puramente indicativo):
– Il rapporto tra la retorica della sicurezza e la retorica umanitaria
– La militarizzazione dell’umanitario (anche in relazione allacollaterale militarizzazione dell’ordine pubblico mondiale)
– Il rapporto tra umanitario e diritti umani
– Il rapporto tra umanitario e attivismo
– Il ruolo delle organizzazioni umanitarie nella ridefinizione del regime di frontiera
– Processi d’inclusione umanitaria
– Cartografie del confine umanitario