#escapes2021 International Online Conference
Mediterranean Crossings:
Refusal and Resistance in Uncertain Times
University of Milan, 24 – 26 June 2021
I dilemmi dell’umanitarismo tra diritto, politiche e pratiche
Sezione B – Razzializzazione, classe, genere e diritti
Convenors: Luca Ciabarri (Università di Milano), Barbara Pinelli (Roma Tre University)
session 1 – session 2 – Call for papers
Frontiera Sud, la rivista: l’umanitario come frontiera
Giuseppe Grimaldi (Frontiera Sud), Paolo Gaibazzi (Università di Bayreuth/Frontiera Sud)
L’associazione Frontiera Sud, lancia una rivista (http://www.frontierasud.org/la-rivista/) . Un progetto che aspira a connettere ricercatori, operatori, attivisti per comprendere e agire sul rapporto tra Sud e migrazioni. Il numero di lancio è sul tema “frontiera”, un termine che pur essendo al centro del dibattito pubblico e politico sembra abbia smarrito il suo significato originario ossia quello di spazio di cambiamento. In questo numero curato da Giuseppe Grimaldi e Paolo Gaibazzi con i contributi di Yassin Dia, Fabiola Midulla, Francesca Carbone e Gandolfa Cascio abbiamo pensato di usare uno sguardo di frontiera per comprendere le migrazioni e la loro gestione. Nei contributi il tema dell’umanitarismo si configura come spazio di frontiera, come una zona grigia che destruttura la dicotomia “aiutanti” “aiutati”. L’umanitarismo, fuori dalla sua concezione egemonica, diventa pratica lavorativa, crea spazi social, produce modalità di pensare il sé (oltre che l’altro). Ma soprattutto diventa spazio di cambiamento per immaginare e costruire implicazione nel campo migratorio.
La classe e “la prigione aperta sopra”. Solidarietà, partecipazione e rapporti di potere nel sistema dell’asilo
Francesca Morra (Università di Torino)
Negli ultimi vent’anni, la ricerca sul sistema dell’asilo in Europa ha messo in luce le ambiguità di politiche e pratiche fondate su un doppio mandato: da un lato il richiamo ai principi umanitari, dall’altro le logiche securitarie. Il sistema dell’asilo prende forma nella tensione fra accoglienza e controllo: il campo dell’umanitario, inteso nelle sue forme più varie, dagli interventi strutturati alle forme spontanee di solidarietà, rischia così in molti casi di diventare funzionale ai meccanismi di controllo. Questa intrinseca ambiguità interseca i vari livelli, da quello macro delle policies, a quello micro delle pratiche. Nei progetti di accoglienza rivolti a richiedenti asilo e rifugiatx si osservano forme molteplici, spesso contraddittorie e ambivalenti, di solidarietà. Questo paper intende analizzare la complessità di tali relazioni d’aiuto, e in particolare l’intreccio fra solidarietà e potere nel contesto dell’intervento umanitario. Le riflessioni si basano sull’osservazione etnografica dell’incontro fra alcune donne rifugiate, due insegnanti volontarie e la ricercatrice, durante le lezioni di lingua italiana in un progetto di accoglienza. Il paper si apre con una scena etnografica – una domanda posta da Asha, una delle donne del gruppo, alle insegnanti, e le reazioni suscitate nella classe. A partire dall’osservazione di questa scena si analizza il processo di costruzione di uno spazio dialogico e le diverse posizioni occupate dalle donne presenti. Le volontarie si pongono in una posizione critica rispetto al progetto e cercano di aprire una possibilità di presa di parola per le donne che partecipano alla classe. Una delle donne interpella, o meglio contro-interpella, le due volontarie, generando così un movimento nel gruppo, una risonanza, che rischia però di aprire una crisi. La ricercatrice comincia osservando la scena, ma viene chiamata dopo poco a partecipare, viene coinvolta. Le due insegnanti si muovono fra il desiderio di dare riconoscimento a una voce dissonante e alla circolazione di parole e esperienze dolorose, e la necessità di contenere il movimento, per non essere travolte. Il loro è un ruolo scomodo, si sentono allo stesso tempo parte integrante del sistema e sguardo critico: le loro azioni esprimono questi intenti contraddittori, rivelando così la contraddittorietà generalizzata di politiche, pratiche e interventi. Alla fine, Asha riassume con un’immagine la sua esperienza del sistema dell’asilo – “una prigione aperta sopra” – di fronte alla quale le volontarie esitano, esprimono la loro fatica. La ricercatrice si ferma con lei finita la lezione, le chiede di poterne parlare ancora. Si apre un’altra conversazione, in cui Asha racconta della sua esperienza nella prigione aperta – dei segni lasciati sul suo corpo e delle sue tattiche per aprire spazi di vita in un luogo troppo angusto. La ricerca etnografica diventa quindi la scena in cui prende forma un’altra narrazione: l’immagine della “prigione aperta sopra” è quasi un luogo comune, il suo significato sembra evidente, ma Asha la usa come oggetto per ripensare e re-immaginare la sua esperienza dell’asilo e la sua relazione con attori e attrici dell’umanitario.
Pensare, immaginare, costruire, reti di donne per un umanitarismo femminista
Ines Rielli (expert in violence, trafficking, and serious exploitation), Irene Strazzeri (University of Salento)
L’interrogativo che poniamo riguarda le modalità con cui costruire reti di donne che aiutino altre donne in posizione di vulnerabilità, in quanto migranti sfruttate nel loro percorso migratorio, senza annientare l’altra. Come evitare che i nostri saperi e il nostro essere donne occidentali sovrastino i saperi dell’altra e la inferiorizzino? E’ un interrogativo fondamentale, nient’affatto scontato, poiché l’istituzionalizzazione, la professionalizzazione, la governance, dei servizi antitratta, attraverso l’estromissione della dimensione politica femminista, sta convertendo gli stessi in agenzie di controllo sociale, di controllo dei corpi delle donne migranti.
Le “donne-vittime” di qualcuno, prostitute, violentate, vessate, tradite, “poverine che se la sono cercata”, private insomma della soggettività da una cultura patriarcale, che le esige in quanto vittime “buone e brave”, incontrano dispositivi di “addomesticamento” confessionale e di assistenza tecnico-specialistici in cui la libertà femminile si dissolve. I dispositivi e le metodologie dell’accoglienza sono resistenti al cambiamento. Permangono, ancora oggi, visioni profondamente arretrate e pratiche punitive e deresponsabilizzanti. Secondo noi la relazione che cura si costruisce dentro l’ordine simbolico femminile, nella relazione democratica tra donne, tra reti femminili informali e formali, ideate a partire dalle singole situazioni e dai bisogni che da queste emergono. Tale presupposto e il modello organizzativo che ne discende, richiede, da parte di chi si occupa di aiutare donne migranti trafficate, un processo di de-costruzione delle categorie e dei codici culturali e professionali interiorizzati.
Se esistono, come esistono, modalità alternativa alla vittimizzazione, emancipate dall’inferiorizzazione, il senso di sconfitta, il sentirsi senza potere e senza forza, occorre esplorarle e praticarle in una alleanza tra donne che ponga al centro la libertà femminile. Il “chi conosce chi”, “chi aiuta chi”, in situazioni che non sono né neutre né oggettive ma situate e sessuate, diventa un interrogativo che ci riguarda e che impressiona la relazione con le donne e con la rete. Una proposta operativa è partire da sé e tenere al centro la relazione, senza mai definirla una volta per tutte, mettendo in atto pratiche di resistenza. Le pratiche “senza modello” a guida della nostra azione sono: la pratica della laicità, la pratica dell’autenticità, la pratica del riconoscimento, la pratica della responsabilità, la pratica dell’uguaglianza, la pratica della cooperazione. Esse richiedono una postura riflessiva e autoriflessiva, pronta ad essere continuamente rinegoziata nelle relazioni. Si tratta di pratiche di relazione incarnate che concorrono a designare il limite dell’irrinunciabile. Le consideriamo pratiche e non modelli né valori per tracciarne l’applicabilità e la concretezza operativa. Non valori a cui tendere, non modelli predefiniti, ma gesti nelle relazioni quotidiane, che presuppongono un esercizio costante di interrogazione su quanto le pratiche stesse siano realmente democratiche, co-costruite, immaginate e re-immaginate assieme alle donne in condizioni transitorie di vulnerabilità, pratiche attive, consapevoli e non passive e di contenimento o peggio salvifiche.
I percorsi delle donne nigeriane richiedenti asilo e vittime di tratta e dei Minori Stranieri Non Accompagnati attraverso il confine del Brennero
Serena Caroselli (University of Genoa, Unesco SSIIM Chair University of Venice)
Questo contributo intende analizzare gli effetti delle politiche di controllo e repressione attive al confine del Brennero, luogo ormai invisibile rispetto ad altri in Italia eppure estremamente violento soprattutto nei confronti di alcune categorie di soggetti tra cui le donne vittime di tratta e grave sfruttamento e i minori stranieri non accompagnati.
Il motivo di questa attenzione deriva dalla scarsa visibilità generale nei confronti di questa zona e degli effetti che le politiche securitarie hanno causato nella vita di chi ha tentato di attraversare questo confine dal 2017 fino ad oggi. Nello specifico si metterà in evidenza quanto ad un controllo estremo del confine non corrispondano pratiche di identificazione per l’emersione dallo sfruttamento e la possibilità di ricevere tutela, sia per le donne vittime di tratta che per i minori stranieri non accompagnati.
I meccanismi securitari attivi lungo la rotta del Brennero hanno reso negli anni passati la Provincia Autonoma di Bolzano un contesto particolarmente ostile rispetto alla possibilità di strutturare delle forme di accoglienza e poter permettere a chi lo richiede di intraprendere dei percorsi di inclusione e autodeterminazione. Nel caso specifico delle donne potenziali vittime di tratta, le forme di esclusione ed espulsione generano corpi invisibili ed esposti alle reti dello sfruttamento e del controllo, così come avviene per i molti minori stranieri non accompagnati che attraverso il Brennero tentando di raggiungere il nord Europa. Nonostante queste categorie sembrerebbero quelle maggiormente meritevole di salvezza a partire da una presunta vulnerabilità legata al genere e al sesso e all’età, questa analisi mette in luce come le retoriche dell’umanitarismo agiscano meccanismi di spoliazione e violenza che impediscono a questi soggetti di agire in auto-tutela e poter accedere ad un’esistenza degna e desiderata. Nel caso di alcune donne coinvolte nell’attraversamento del confine del Brennero, in particolare quelle di nazionalità nigeriana, agiscono immaginari che le descrivono come prostitute da controllare e redimere, vittime vulnerabili da risocializzare e al contempo soggettività portatrici di una ambiguità inafferrabile. Questi immaginari orientano le pratiche violente di un governo assistenzialista che cela tutta la sua brutalità.
Session 2
“I’m not hiding; you want me to hide. Yet, I am so visible!”
Undocumented migrants as translocal legal subjectivities
Giulia Fabini (University of Bologna)
The mechanisms of border control are woven in a transnational dimension, where a variety of legal and normative orders affects the norms-making processes. In this paper, I propose to read the encounters between the police and undocumented migrants through the lens of “translocal legalities”. This is a new theoretical concept elaborated by the Translocal law research collective, defined as “emergent forms of normativity that are constituted through grounded encounters with local and transnational legal practices, discourses, subjectivities, and forms of resistance”.
I will observe how in the grounded encounters between the police and the illegalized and undeportable migrants the very presence of unauthorized migrants in the receiving countries is due to their cross-borders mobility; laws regulating their entry and living are “embedded” in any given local context, travel from one place to another and are translated in the course of the journey; their very existence is the result of complex processes occurring not only at the state level, but also transnational; their undeportability is due to local, regional, state elements, and international cooperation; and their very presence and their visibility is affirmed, negotiated, contested, opposed at the local level.
If we take the lenses of translocal legalities, we can see different normative and legal systems participating in the border control; and we can see the transnational dimension of control and struggles. The concept of translocal legalities reveal “not a uniform field of law, but rather open-ended, contingent, and fragile legalities that enable new complex terrains of political struggle”. In empirically assessing translocal legalities in the field of border control, I aim to show how these encounters challenge a notion of law based in the logic of sovereign authority that aspires to universality, while open new spaces of possible governance. The presence in receiving societies of unauthorized migrants reveals the emergence of new forms of normativity, produced by the encounter of local, state, and global legal and normative orders. My theoretical and empirical proposal, here, is that mechanisms of border control can be better understood if we look at the illegalized migrants as translocal legal subjectivities, who are able to change the functioning of normative systems through their very existence as mobile subjects.
Power, Mediation, Resistance.
Street-Level Bureaucracy, Third Sector Facilitators and Migrants
Tindaro Bellinvia (University of Messina)
Based on action research which began in June 2020 in Messina, in a newly established Services Access Point (PAS), this contribution aims to highlight the strategies adopted by third sector operators and their migrant users in order to facilitate their emergence and regularisation. The Messina PAS is part of a wider regional public-private project, PRISMA (Integrated Regional Plan for a Multicultural and Receptive Sicily) financed by the FAMI fund (Migration and Integration Asylum Fund) and is run by the Sicilian Region’s USI (Special Immigration Office). The theoretical analysis, which references Foucault’s juxtaposition of power-resistance, used by Aihwa Ong to study Cambodian refugees in the USA, focuses on an additional concept, that of the mediation between the discretional power of bureaucrats to issue documents or to provide services, and the migrants’ more or less explicit forms of resistance, which they use in order to assert their basic rights. Mediating between public bureaucracy and the individual migrants is, in fact, the main objective behind the creation of this service, and if, on the one hand, it makes use of the keywords and conceptual tools typical of New Public Management, on the other, it effectively helps the users to obtain documents, and gain access to local services, thanks to the work of activist-operators who are ready to deal with any conflict that may arise with the authorities, or to work informally if necessary.
Within the theoretical framework outlined, this paper aims to focus on some of the users of the Messina PAS, who come from situations of serious marginality, and whose stories embody the hope typical of neoliberal governmentality, that of becoming their own boss and finding an adequate place in society, only to then experience a fall and the subsequent difficulty of getting back on their feet. Taking responsibility for users with such serious issues creates huge difficulties, and is a testing ground for the care service’s ability to create a network with local services, voluntary organizations and the third sector. Almost a year after the Messina PAS began its activity, what has emerged is that, while it may be sufficient to present the statistics regarding the number of beneficiaries taken on and a convincing report on case management to the funders, what is needed to gratify and motivate the operators, are stories of positive outcomes for the users. It is fundamental for operators who are often dissatisfied due to the unstable nature of their jobs and salaries (which creates continuous turnover), to feel that their work has had a positive impact on these people’s lives. Helping a person who is invisible – some are also elderly – seeing them achieve a modicum of economic and residential stability by obtaining a residence permit, a tax code, housing, an identity card and a General Practitioner, is highly motivating. In this context, the dilemma emerges between the inevitable precariousness present in the lives of both the migrant-users and the operator-mediators: the former crushed by their constant attempts to emerge from the shadows into which they are continuously returned every time they lose a job and by the precariousness of their status, while the letter are prisoners of a working existence dominated by the vulnerability of a work-system based on projects. This uncertainty is also the result of a historical phase in which, as Fassin writes, securitarianism prevails over humanitarianism with all that entails in terms of laws, policies and practices.
D.Fassin, Ragione umanitaria, una storia morale del presente, DeriveApprodi, 2016, Roma.
Gordon, “Governamentality rationality: an introduction”, In G. Burchell, C. Gordon, P. Miller (ed. by), The Foucault Effect: Studies in Governamentality; University of Chicago Press, Chicago, 1991, pp. 1-51.
A. Ong, Da rifugiati a cittadini. Pratiche di governo della nuova America, Raffaello Cortina, Milano, 2005.
L’umanitario tra depoliticizzazione e accumulazione capitalistica
Osvaldo Costantini (University of Messina)
L’umanitario è stato senza dubbio il paradigma dominante nell’approccio alle persone migranti/richiedenti asilo/rifugiate nell’Europa degli ultimi due decenni. L’antropologia ha mostrato la genealogia dell’umanitario, le sue contraddizioni e, in parte, il dispiegarsi di forme di sorveglianza e disciplinamento come lato oscuro di questo dispositivo di governo. Dopo l’uscita della traduzione italiana del libro di Fassin “La ragione umanitaria”, Miguel Mellino, in una recensione molto acuta, sottolineava l’importanza del testo, mostrandone, al contempo, un suo limite: quello di non riuscire a vedere come la dialettica tra compassione e repressione, tra umanitarismo e securitarismo, fosse da inquadrare essa stessa all’interno delle logiche di valorizzazione capitalistica. Anzi come lo stesso dispositivo umanitario fosse una strategia di accumulazione, operante anzitutto mediante l’espropriazione delle stesse soggettività. Il presente lavoro intende partire da questo particolare punto del dibattito, per esplorare fino in fondo il punto di connessione tra una retorica che mette al centro “la vittima da salvare” e un modello che intende “estrarre” valore, sulla base di una bella metafora di Saskia Sassen, da qualunque relazione sociale, dai desideri e dalle tragedie.
L’analisi etnografica si concentrerà in particolare sul ruolo giocato dalla sottrazione di qualsiasi forma di autodeterminazione ai soggetti, oscillando da una vittimizzazione che gliela nega e una repressione che reprime quando essa invece prova a manifestarsi. Saranno dunque analizzati due casi etnografici, uno relativo alla situazione dei migranti in transito a Ventimiglia nel 2017 e uno relativo alle occupazioni abitative romane, entrambi campi battuti dallo scrivente. Nel caso di Ventimiglia saranno analizzate le dinamiche collegate alla repressione dei soggetti in transito verso la Francia, in particolare il caso di un giovane eritreo, andando a sottolineare l’aspetto di “valorizzazione” contenuto nella logica di riportare indietro all’hotspot di Taranto persone che erano talvolta in progetti di accoglienza nel nord Italia, mostrando come tali traiettorie finivano per incanalare le persone all’interno dei meccanismi dello sfruttamento lavorativo e della prostituzione. A Ventimiglia si poteva vedere l’altro lato dell’umanitario, quello che “obbliga” all’accoglienza e mette in campo una modificazione continua di “frontiere a geometria variabile” nel momento in cui le persone escono dal meccanismo. Nel caso dell’occupazione invece verranno viste le conseguenze marginalizzanti dell’articolo 5 del Decreto Renzi-Lupi del 2014, che impedisce alle persone che vivono in occupazione di accedere alla residenza, e con essa al Servizio Sanitario Nazionale, alle agevolazioni, ad alcune forme di welfare, al rinnovo del permesso di soggiorno. In particolare si valuterà il caso di un rifugiato uscito dai circuiti dell’accoglienza, per la mancanza di autonomia che quelle situazioni prevedevano, onde scegliere la via dell’occupazione abitativa. Anche il suo percorso lo porterà ad alcune forme di illegalizzazione, molto pesanti in termini di costrizione ad alcuni meccanismi dello sfruttamento. Attraverso l’analisi di tali traiettorie si vuole indagare come, con l’umanitario, e con la repressione di qualunque cosa al di fuori di esso, si generi anzitutto una negazione dell’autodeterminazione del soggetto, e dunque la possibilità di costruirsi percorsi autonomi che non siano incanalati nel meccanismo della produzione di manodopera docile e disponibile.
Umanitarismo come razzializzazione? Per una lettura postcoloniale dello sfruttamento umanitario del lavoro migrante
Francesco Marchi (Università degli studi di Napoli “L’Orientale”)
Negli ultimi due decenni l’umanitarismo è stato al centro di un approfondito dibattito accademico. Dal momento che gli anni ‘90 hanno segnato la (ri)comparsa di interventi umanitari su scala globale, la letteratura sull’argomento ha analizzato la logica operativa di questo apparato di governo, insistendo anche e soprattutto sulle sue antinomie etico-politiche. Mentre un crescente corpus di studi sull’argomento ha contribuito a una comprensione critica d’insieme del governo umanitario, solamente poche ricerche si sono concentrate sul ruolo giocato dall’umanitarismo nella produzione di soggetti sfruttabili e razzializzati, sostenendo la necessità di indagare ulteriormente come e perché l’umanitario si riveli un dispositivo del tutto interno al funzionamento dell’economia politica globale. Facendo riferimento al mio progetto di ricerca in corso sullo sfruttamento di richiedenti asilo, rifugiati e richiedenti asilo diniegati nel settore agricolo italiano, questo paper intende offrire una risposta preliminare a questi come e perché attraverso un’analisi postcoloniale del governo umanitario. Per fare ciò, il paper si propone di delineare e proporre una geneaologia non eurocentrica dell’apparato umanitario, concentrandosi sia sulla frontiera razziale e coloniale che struttura la moderna figura dell’umano interna al moderno regime umanitario e dei diritti umani, sia sull’intreccio storico e costitutivo tra colonizzazione e governo umanitario delle popolazioni coloniali. Chi è l’umano dell’umanitarismo? In che modo l’umano razzializzato dell’umanitarismo può interrogarci sulla logica operativa, ed estrattiva, dell’umanitarismo contemporaneo? È possibile concepire l’apparato umanitario come dispositivo che contribuisce in maniera decisiva alla razzializzazione della popolazione migrante nello spazio europeo? L’umanitarismo è solo una tecnologia biopolitica o, come indicano alcuni studi, si articola attorno a un intreccio ambivalente tra biopolitica e necropotere? Partendo dalla razzialità e dalla colonialità interna all’umanitario, questo contributo intende suggerire che lo sfruttamento umanitario di rifugiati e richiedenti asilo rischia di essere liquidato come un fenomeno eccezionale, paradossale e/o contingente a meno che non venga presa sul serio la dimensione razziale che struttura storicamente il governo umanitario.
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